Zarepta e il pane spezzato…

Testimonianza di Saretta Marotta, collaboratrice centrale  2004-2008 e segretaria nazionale MSAC nel triennio 2008-2011. Testo della relazione finale al XIV congresso nazionale MSAC, 10 aprile 2011.

Buon sangue non mente, ragazzi. Quando il XIV congresso lo aspettavamo, ci tenevo tantissimo a farvi questo augurio. Buon sangue non mente. E’ incredibile come sia riassunta tutta qui, in una frase, la ricchezza e il significato di tutto un centenario. Sì, è un titolo che sicuramente dice un po’ d’orgoglio, ma è l’orgoglio vanitoso e tanto grato di vederci pienamente inseriti in una storia lunga, gloriosa se volete, ma soprattutto GRANDE, grande quanto il bambino del manifesto vuol diventare. Grande in profondità, larghezza ed altezza. Altezza, perchè il MSAC ci ha sempre allenato a sogni alti, ad alzare sempre di un centimetro di più l’asticella e riprovare il salto. Larghezza, perché questa storia ha coinvolto tante diocesi, tante scuole in tutta Italia ma anche tante generazioni che magari sugli stessi banchi si sono avvicendate e a velocità impressionanti (pensate l’avvicendamento medio dei nostri istituti…).  Profonda, soprattutto, perché ha toccato la vita, attraversato l’esistenza, trasformato il sangue di tanti. Probabilmente ve ne sarete accorti ieri sera da quello che traspariva dal commosso saluto di Simone. Io l’ho percepito durante tutta la mia esperienza msacchina, ma soprattutto con il centenario, esperienza durante la quale ho ricevuto la compagnia di persone che, anche se in qualche modo attraverso le strade della vita si sono inevitabilmente allontanate dall’esperienza dell’asinello che va su e giù dai banchi di scuola, sono rimaste profondamente legate al movimento, profondamente affezionate, ma soprattutto gli sono rimaste profondamente grate. Perché vedete, a noi che forse abbiamo qualche anno in più e che magari ci vediamo più chiaro perché ci prepariamo a lasciare o abbiamo già lasciato, è pacifica la consapevolezza che il MSAC ci ha davvero cambiato la vita. E non è uno slogan da servizio civile. Quello che siamo, come parliamo, quello che crediamo, quello che abbiamo avuto il coraggio di sognare, tutto quello che siamo diventati viene dall’Azione Cattolica ma soprattutto viene dal Movimento. Ma sono sicura che lo state sperimentando anche voi che in questa avventura ci siete ancora immersi fino al collo. Godetevelo questo sogno, tiratene fuori il massimo, succhiatene tutto il midollo. Pensavo a noi, agli studenti del MSAC di oggi, a come saremo, quando in questi tre anni ho sentito la compagnia di tutti questi msacchini fuori età ma ancora così uguali a come il movimento li ha lasciati. Il centenario è stata l’occasione per cercarli, per coinvolgerli, per mantenere un contatto, tante volte (quante volte!) per lasciarsi aiutare, per verificare e persino pensare insieme il programma di un’iniziativa, tramite una telefonata – o piuttosto una serie insistente di telefonate! – oppure una richiesta grande dell’ultimo minuto a cui il msacchino di buon sangue non dice mai di no. Come Maila che domani verrà pur trovandosi in un periodo di riposo dall’insegnamento e incinta di tre mesi affronta un viaggio dalla liguria per noi. Come Simone che per telefono, per mail, su skype c’è sempre stato. Come Nisia con cui condividere la cameretta del pensionato è stata l’occasione per condividere molto più che il sonno… e i sogni (ci siamo scambiate chiacchiere e preoccupazioni sull’Ac e sul movimento parlandoci attraverso la porta del bagno mentre una faceva la pipì e l’altra si vestiva, la notte prima di addormentarci – finendo a parlare al buio per ore, al telefono nei momenti di disperazione…). Come Giandiego che coi suoi sms strampalati e le sue email al limite dell’esasperazione si è sempre dimostrato un papà. Come tanti altri… Sperimenti come sui msacchini di ogni tempo ci puoi sempre contare. Non so descrivervi come possa essere davvero commovente chiamare settantenni, padri e madri di famiglia, magistrati, parlamentari, vecchi professori e sentirsi inondati da tutto questo affetto, stabilire immediatamente un contatto che va oltre la distanza delle generazioni: è sentirsi una compagnia di amici, anzi di fratelli, di varie età, come fossimo tutti ripiombati tra i banchi di scuola.  Non è forse questo quello che intendeva Vittorio Bachelet quando alla sua ultima assemblea nazionale diede questa definizione dell’AC: «una realtà di cristiani che si conoscono, che si vogliono bene, che lavorano assieme nel nome del Signore, che sono amici: è questa rete di uomini e donne che lavorano in tutte le diocesi, e di giovani, e di adulti, e di ragazzi e di fanciulli, che in tutta la Chiesa italiana con concordia, con uno spirito comune, senza troppe ormai sovrastrutture organizzative, ma veramente essendo sempre più un cuor solo e un’anima sola cercano di servire la Chiesa».

A volte abbiamo anche scherzosamente maledetto questo movi100, perché far ritrovare questa comunità di persone ci ha chiamati ad un impegno aggiuntivo, ma, lo dico sul serio, è stata una grazia grande scoprire che chi ha il MSAC nel sangue, chi dal movimento si è lasciato trasformare, non lo dimentica. E’ di questa consapevolezza che vi invitiamo a percepire di avere tra le vostre mani il testimone.

IL BIMBO: un’esperienza da regalare

Abbiamo disegnato nella nostra locandina un bimbo che cresce e che misura la sua crescita. Quel bimbo, manco a dirlo, è il movimento. Lo abbiamo raffigurato così giovane, bambino e non adolescente, perché dopo 100 anni ci sentiamo di dire che il movimento ha ancora una proposta fresca, freschissima, talmente giovane non solo da non invecchiare mai, ma da avere sempre ampi spazi di crescita per ciascuno. E nessuno come i bambini dice la forza e la certezza del futuro. Abbiamo scelto il bimbo perché del MSAC sentiamo tutti la responsabilità della cura, di accompagnarlo a diventare sempre più grande, a crescere bene, forte, di buon sangue. Se avessimo raffigurato un adolescente certo non avrebbe avuto lo stesso effetto. Ci avrebbe intenerito meno questo asinello che tanto ha bisogno delle coccole, del sostegno, del contributo di tutti. Guardate il manifesto, il pezzo di strada che questo bambino ha tra le mani. Voi siete chiamati ad accompagnare il msac per il prossimo traguardo, questa storia è lasciata a voi, ma soprattutto sono lasciate alla vostra cura le storie di tutti questi studenti che il msac può ancora incontrare. Per questo il MSAC deve essere un’esperienza viva, forte, bella e soprattutto diffusa. Non tenete questa ricchezza per voi, non rinunciate alla meta di portare il msac in tutte le città della vostra diocesi, in tutte le scuole, perché è una proposta che ha tanto da dire e che davvero può cambiare il mondo. E voi lo sapete perché avete sperimentato come questa rivoluzione mondiale sia cominciata innanzitutto in voi stessi, rivoluzionando il vostro modo di essere, di «vivere e non vivacchiare», come diceva Pigi Frassati. Rifletteteci, il MSAC ci incontra, ci cambia, ci trasforma proprio nel momento in cui si forma maggiormente la nostra personalità, gli anni della formazione, dell’adolescenza, della scuola superiore. A me e tanti come me il MSAC ci ha presi quando eravamo 15enni e ci ha accompagnato e ci accompagna per gli anni successivi, e sono tanti anni. 11 anni fa ero una timidissima ragazzina molto chiusa, molto cocciuta (e questo è rimasto), certo forse anche appassionata, ma mai come il movimento m’ha insegnato oggi ad essere: affascinata dalla missione di coltivare la passione per l’uomo e per la sua storia, di lasciar germogliare dentro il mio tempo e le cose più importanti per la mia vita il seme dell’impegno e gli spazi di gratuità. In questo il MSAC ci ha fatto da maestro, ci ha cresciuti, ci ha tirato su e, possiamo dirlo, da quello che vedo qui davanti a me, ci ha tirati su proprio bene! Buon sangue non mente, ragazzi. Il nostro titolo è un moto d’orgoglio, ma anche un augurio. L’augurio è che il msac possa diventare roba che cambia la vita per molti più giovanissimi, molte più vite. Per questo l’Azione cattolica – e purtroppo lo sappiamo solo noi che il msac l’abbiamo vissuto – non può proprio farne a meno. Siamo in poco più di 50 diocesi in tutta Italia ragazzi. Non sono poche, ma dobbiamo fare di più. É una cosa troppo bella ‘sto msac! E non lo diciamo per essere di parte, ma perché il MSAC è davvero troppo prezioso per NON essere a portata di tutti. Fare msac fa mille volte più bella tutta l’associazione. Da parte dell’AC ci aspettiamo allora un più convinto impegno nella promozione del movimento nelle diocesi che non ce l’hanno. Il Movimento Studenti è strategico, è portatore di vitalità, formazione, qualità: è un vero peccato sprecarlo. É una risorsa per il Settore giovani proprio nelle diocesi in cui fa più fatica e in cui più ci sentiamo dire “ci piacerebbe ma.. non ne abbiamo le forze”. E’ giunto il momento di un impegno tanto, tanto, tanto superiore. Facciamoci una promessa, ragazzi… Noi il msac non dobbiamo solo diffonderlo, ma dobbiamo sempre più garantirgli qualità. Buon sangue non mente è anche un’impegno. Un’impegno ad essere all’altezza. Di questa storia, di questa missione. Con voi adesso vorrei fare un po’ di verifica del cammino percorso, in questa prassi tradizionale che è la cosiddetta “relazione di fine triennio dei segretari nazionali”, che da quando il segretario è uno bisogna che ve la sorbiate da una voce sola. E’ un po’ che lo temo questo appuntamento con voi. Mi consola il non essere da sola, non solo a questo tavolo, ma perché vi porto qui il risultato di riflessioni condivise con voi e  particolarmente con l’Equipe e la segreteria nazionale, compagne di un viaggio meraviglioso al servizio degli studenti di tutta Italia e che qui ringrazio, uno per uno e tutti insieme, per la splendida avventura di aver vissuto questo impegno che ci ha reso fratelli, amici, compagni di strada e così ci lascerà anche adesso che i nostri sentieri prenderanno direzioni diverse, come da diverse provenienze ed esperienze il Signore ci ha raccolti qui in questi anni, a condividere un pezzo di cammino.

IL METRO: una proposta sempre all’altezza. Guida all’utilizzo del documento congressuale

Allora, dicevo, gente, è tempo di bilanci. per i bilanci e per le misurazioni ci vuole un metro di paragone. Ci vuole allora un muro, lo stipite di una porta contro cui segnare le tacche della nostra crescita. Servono delle misure. Io ve ne indico tre: il nostro essere Azione Cattolica, il nostro impegno di associazione studentesca e lo stile dell’I Care.

Stamattina abbiamo studiato, discusso, proposto emendamenti alla bozza di documento congressuale che tra qualche ora voteremo. É un documento che non esaurisce il suo compito con la giornata di oggi, non è solo un riepilogo di impegni e buone azioni per il triennio passato o un’adempimento congressuale che… ce tocca! É la bussola che guiderà i vostri passi nel prossimo triennio, sia per la vita delle diocesi che per le scelte dell’Equipe e Segreteria nazionale. E non è un vincolare o limitare la creatività futura, ma è un impegno di fedeltà a quello che stiamo scegliendo insieme in questi giorni, negli scorsi mesi, in tutto il lavoro con cui è stato preparato questo documento, a partire dalla discussione delle bozze in ciascun circolo, in ciascuna diocesi. É un tesoro di esperienze e buoni consigli questo documento e la fatica di emendarlo, votarlo insieme significa che abbiamo voglia di prenderci l’impegno di essere fedeli non tanto al documento, ma a ciò che ci siamo detti e abbiamo condiviso in questi giorni, in questo tempo di fine triennio.

C’è scritto dentro insomma non tanto il passato ma buone dritte e scelte per il nostro futuro e io voglio tirarne fuori e leggere con voi solo alcune idee di fondo, le scelte fondamentali nate dall’esperienza di questo triennio. Se avete notato, nella prima parte ci abbiamo tenuto a ridire soprattutto la nostra identità. Abbiamo scelto quattro parole forse un po’ stupide, sicuramente banali, ma su cui ci siamo resi conto di non rifletterci mai sopra abbastanza e fino in fondo. Allora ripercorriamole insieme anche adesso. Le conoscete, sono: MOVIMENTO, Studenti, di Azione, Cattolica.

Movimento: sentinelle nell’AC

Non abbiamo forse mai riflettuto prima su che cosa vuol dire essere movimento fino in fondo – o se preferite, fino in cima. Insomma, cosa vuol dire essere un movimento di ac. Non un settore, non un’articolazione, non una fascia d’età o una parte di qualcos’altro, del settore giovani per esempio. Siamo un movimento: pienamente “dentro” all’Azione cattolica, ma con una nostra precisa identità.

Sicuramente il nostro “statuto speciale”, quello di “movimento” appunto, è sinonimo di profezia. di avanguardia, ci invita ad essere sentinelle. Tre anni fa il nostro documento congressuale si apriva con una tesi numero 1 che ribadiva che il Msac è parte integrante dell’associazione, specialmente del Settore Giovani, e che il cammino ordinario di un msacchino deve essere quello nel gruppo giovanissimi di Azione cattolica. Non modifichiamo quanto detto tre anni fa, anzi, possiamo dire che in questo triennio su questo punto abbiamo tanto lavorato ed è divenuto consapevolezza acquisita da parte di tutti, praticamente spontanea e, non stupitevi, non è stato sempre così. E siamo dunque grati del cammino fatto e l’invito rimane quello di mantenere alta la guardia su questo fronte.

Tuttavia, se il documento congressuale non deve essere l’enciclopedia di ciò che vuol dire essere movimento, quanto piuttosto lanciare i punti su cui lavorare nel futuro, deve essere cioè un documento che serva a sottolineare le emergenze attuali, allora ecco che abbiamo voluto arrivare a  questo congresso aprendo il documento con una tesi di tono diverso. In questi anni siamo sempre partiti (e abbiamo sempre lavorato perché fosse vero) dal presupposto che siamo giovanissimi di ac che si impegnano nelle scuole: questo significa che il nostro cammino ordinario lo facciamo nel gruppo parrocchiale. A livello diocesano, attraverso il msac, ci riuniamo per fare attività nelle scuole e formazione specifica, ovvero formazione specificatamente pensata per la nostra condizione di studenti. In questi anni siamo stati confortati dal rilevare come nella maggior parte delle diocesi il msac nasce su proposta del settore giovani, magari proprio partendo dai gruppi giovanissimi parrocchiali. Anche questo non è sempre stato così nella storia msacchina ed è un’occasione di più per rendere grazie.

Ma un giorno in segreteria nazionale e poi in equipe ci siamo guardati e ci siamo chiesti: ma non ci staremo dimenticando qualcosa? Vi dicevo che la ricchezza del centenario è stata il potersi confrontare con una storia e soprattutto con delle persone in carne ed ossa. É stata una mail di Giandiego a metterci un grillo in testa. Diceva: “da quando i msacchini che aderiscono all’ac non appartenendo ad un parrocchia sono diventati un’eccezione?” Non so dirvi che effetto ci ha fatto. Abbiamo riflettuto e ci è sembrato alla fine di ritrovare una tessera del puzzle che non ci eravamo resi conto di aver smarrito. Proprio perché partiamo da una profonda percezione, quella di essere parte integrante dell’associazione, proprio perché ci impegniamo tanto per accompagnare i msacchini nell’inserimento nei cammini ordinari parrocchiali di azione cattolica, abbiamo il dovere di chiederci  se per caso questa prassi ci ha portato ad una scarsa attenzione nei confronti dei msacchini che dell’Ac al momento non conoscono che solo il msac. Li consideriamo davvero mosche bianche, eccezioni? Il msac sta diventando una proposta solo per giovanissimi che già frequentano le parrocchie?

Abbiamo quindi verificato la realtà delle diocesi. Per molte la promozione del movimento consiste soprattutto nel giro parrocchie e nella partecipazione ai campi giovanissimi diocesani. Sono passi indispensabili, ma chiediamoci se questo è tutto il senso di essere movimento. Se il MSAC esistesse solo per mantenere viva nei giovanissimi di AC un’attenzione per la scuola, basterebbe fare nei gruppi parrocchiali più moduli tematici sulla scuola e poi dar modo ai ragazzi di fare equipe organizzative per progettare i punti di incontro.

Ma fare msac è di più. Non esistiamo per detenere una delega formativa sulla scuola o sui temi studenteschi. Essere un movimento interno all’Azione Cattolica ci chiama ad una missione molto più ampia. Chiediamoci allora: quanto siamo capaci di intercettare studenti oltre la soglia delle nostre parrocchie? Quanti msacchini lo sono diventati perché già giovanissimi di ac e quanti hanno invece fatto il percorso inverso? …

Vi dico una cosa che mi sembra di aver capito, voi potrete non essere d’accordo, ne parleremo nel dibattito. Il msac è per questi ragazzi. Per gli studenti fuori dal giro dell’AC e delle parrocchie. Il msac deve essere la loro prima esperienza di Chiesa e di Azione cattolica. É questa la ricchezza grande del movimento, che dobbiamo ribadire perché altrimenti troppi si chiederanno e avranno ragione di chiedersi in futuro “il movimento che ci sta a fare” e sempre più diocesi non riterranno prioritario il msac. Un msac che si chiama movimento proprio perché è chiamato a farsi flessibile per adattarsi alla realtà di un luogo di confine, quello dei banchi di scuola, che tante attenzioni richiede e che non può avere una formula uguale per tutti.

Allora mancheremmo alla nostra missione, se dimenticassimo che dobbiamo rivolgerci soprattutto a loro, gli studenti OUT, fuori dal giro associativo. I giovanissimi di Ac sono la spina dorsale del movimento, i promotori. Ma nei nostri Punti di Incontro dobbiamo essere capaci di coinvolgere tutti, di parlare a tutti! Quando ero segretaria diocesana ho conosciuto molti responsabili delle diocesi, spesso passati poi anche al livello nazionale, che hanno conosciuto la Chiesa e l’AC proprio attraverso il movimento. Capite quale ricchezza grande sia stata per loro l’aver incontrato il msac! Chiediamoci oggi quanto questo sia un’esperienza comune nei nostri circoli e se non lo è… beh, gente, dobbiamo inventarci qualcosa!!! Non possiamo fallire questa nostra prima missione, che non è fare proselitismo, ma è annuncio in un luogo e tra persone che tanto ne hanno bisogno, che attendono un nostro coinvolgimento. Diceva don Milani prima che cristiani i miei montanari li devo far uomini. Dei nostri compagni di scuola, prima di rivolgerci a quelli “del giro”, dell’ultimo campo diocesano giovanissimi, della parrocchia vicina, dell’Ac o di altro movimento, dobbiamo pensare a quelli che il vocabolario associativo non lo conoscono! Quelli che in Chiesa non ci mettono più piede o non ce l’hanno mai messo. E va da sé che questo impegno è impossibile senza i giovanissimi di AC che reggono la vita del movimento e ne sono responsabili e, direi, anche garanti di un’esperienza autenticamente associativa. Però il MSAC non possono farlo SOLO loro.

Ne consegue che dobbiamo anche pensare a valorizzare la presenza di aderenti al movimento che ancora stanno maturando una piena adesione all’AC all’interno di una comunità parrocchiale. Proprio per questo avete trovato una tesi che parla proprio delle modalità di adesione all’AC, lanciando l’idea di una seconda festa dell’adesione vissuta nel circolo MSAC che sia successiva a quella che ciascuno avrà vissuto nella parrocchia in cui è inserito. Questo per rafforzare nei msacchini l’appartenenza all’associazione, coinvolgendo però anche chi, per ragioni varie, non ha potuto aderire attraverso una parrocchia, magari perché l’AC non è presente in tutto il territorio della diocesi, magari perché l’inserimento in un gruppo giovanissimi è un passo che si sta ancora avviando. Bisogna però valorizzare la disponibilità e la voglia di questi msacchini non o non ancora giovanissimi di manifestare nel segno concreto dell’adesione il loro impegno nel msac. Bisogna offrire loro quindi la possibilità di aderire all’AC attraverso il msac e cioè in centro diocesano. Il MSAC è già in sè un’esperienza di AC, un’esperienza di Chiesa, a tutti gli effetti. Il principio, di cui tutti siamo convinti, per cui l’AC è soprattutto una comunità intergenerazionale radicata nella parrocchia è la meta alla quale dobbiamo indirizzare e accompagnare queste ragazzi, ma in troppe diocesi abbiamo falsato questo principio riducendoci persino a trovare una parrocchia fittizzia in cui inserire il nuovo aderente pur di dire che non esistono aderenti in centro diocesano. Interroghiamoci su quale messaggio comunichiamo ai msacchini che magari attraverso questi espedienti per la prima volta aderiscono all’associazione. Allora vi faccio una preghiera: siamo più attenti, ma soprattutto, siamo più fedeli alla missione che è propria di un movimento di Ac, che abita luoghi di confine, i banchi di scuola. Buon sangue non mente, allora, se sapremo essere fino in fondo MOVIMENTO.

Studenti: competenza msacchina sul banco di prova

Questa ragazzi era la parola che mi premeva di più sottolineare. Le altre discendono tutte da questo impegno. Infatti, se il banco di scuola è il nostro luogo teologico di missione, è chiaro che non possiamo disertarlo. Gente, questa è una cosa cruciale, che ci siamo detti mille volte. Anche tre anni fa nello scorso documento congressuale, insistevamo su una maggiore presenza nelle scuole, ma qui vi invitiamo ancora una volta ad un passo in più, ad alzare l’asticella del prossimo salto: dobbiamo riflettere per bene su cosa vuol dire essere MOVIMENTO STUDENTI. Siamo un’associazione studentesca, una tra le nove maggiormente rappresentative di tutta Italia. il che vuol dire che questa responsabilità di rappresentanza degli studenti non può essere evasa solo facendo ogni tanto un’attività a scuola, che anche quello sappiamo con quanta fatica lo facciamo nei circoli ed è un punto su cui insistiamo da sempre e sempre insisteremo. Un msac infatti che non realizza attività nelle scuole necessariamente cambia natura. E’ quello che abbiamo voluto comunicarvi con questa proposta di riforma delle 4 stanze. Se il Punto di Incontro è il cuore del movimento, capite che un msac senza cuore non campa. Un msac senza testa, la formazione specifica, entra in stato comatoso, ma senza cuore non è movimento. Ma questo impegno a salvare la scuola nella dimensione del movimento guardate che ci chiede molto di più che parlar sempre dei temi a noi cari: partecipazione, protagonismo  studentesco, senso dello studio.

Guardate, è una cosa che dico prima di tutto a me stessa. Sono 11 anni che vado in giro a dire che noi scommettiamo su partecipazione, relazioni, senso dello studio, che abbiamo voglia di capire e abitare il mondo della scuola. I nostri pareri legislativi dicono più o meno: “ok alle riforme, ma con criterio”, oppure “questa misura ci piace, in questa vanno precisate delle distinzioni, qui l’approccio è sbagliato”… tuttavia, al momento della propositività non sappiamo cosa comunicare. Non so se ho fatto intendere quello che voglio dire, ma, gente, riflettiamo, siamo cittadini sovrani! Questo della scuola è il tempo di un impegno di studio, è tempo di un impegno di competenza!

Altre associazioni studentesche, anche a livello dei singoli aderenti, sulla legislazione scolastica sono molto più preparate, molto più appassionate di noi. La dimensione dell’informazione, dello studio delle politiche scolastiche non può più essere delegata. Dico “delegata” proprio perché di solito lo deleghiamo a qualcuno particolarmente portato per questi temi cosiddetti “difficili”. Anche in equipe nazionale le politiche scolastiche sono cosa che riguarda solo i delegati nazionali, tant’è vero che anche come incaricati regionali, quando ci si chiede incontro sulle riforme della scuola, ci troviamo in imbarazzo. Vi diciamo chiamate Agatino o chiamate Michele. Non dovrebbe essere così. Anzi, alla prossima equipe (messaggio promozionale alla prox equipe) dico che se è vero che voi col vostro essere testimoniate nelle diocesi che visitate come si fa msac, il fatto stesso che non vi sentiate portati per la legislazione scolastica o deleghiate a qualcun altro il compito di spiegarla ai circoli fa percepire che quella evidentemente è una dimensione opzionale, che non è essenziale al fare movimento. Invece lo è, perchè il msac è un’associazione studentesca, una tra le poche più rappresentative che siede al forum del Ministero dell’istruzione e senza questa consapevolezza e questo impegno fatto proprio da ciascun msacchino non ha senso che la segreteria nazionale si metta a sedere a quel tavolo là, portando l’opinione della segreteria e dei delegati, di tre, quattro, cinque persone.

É questo il problema che riscontriamo ogni volta che dobbiamo presentare un parere legislativo ed è questo l’appello che vi abbiamo ripetuto fino alla nausea anche sul blog “Io partecipo” e che trovate anche nel documento congressuale. Lì trovate anche una tesi che propone la figura dei “delegati legislativi” diocesani. Dopo quello che vi ho detto può sembrare un controsenso. Come, direte, prima ci dicono che non bisogna delegare, poi creano queste figure in diocesi di ragazzi che si occupano solo di questo? Vorrei farvi cogliere come l’istituzione di queste figure non sia una contraddizione rispetto al proposito che ci siamo detti, ma certo un primo passo e che non deve rimanere l’unico. Non si tratta di limitarsi ad indicare in ogni diocesi qualcuno che sia naturalmente portato a questo interesse per i temi di legislazione scolastica e se c’è bene e se non c’è amen. Il delegato legislativo ha il compito di accompagnare tutto il circolo ad una maggiore consapevolezza.  Affidiamo a queste persone questo ruolo, perchè possano accompagnarci con gradualità tutti insieme a questo impegno, a questa missione di servizio che deve essere consapevolezza di tutti.

Chiudo con un suggerimento: coltivate le relazioni con le altre associazioni studentesche, guardatevi in giro – che non fa mai male – imparate dagli altri movimenti quel che di buon c’è da prendere, così come in ogni persona incontrata tra i banchi di scuola c’è una ricchezza grande, al di là dei difetti e dei limiti. Non dobbiamo diventare un copione di associazioni ideologizzate, ma da tutta quella passione espressa in così tanti studenti (sono associazioni numerose, ricordiamocelo) non possiamo non farci interpellare. Quali domande di partecipazione intercettano queste associazioni e com’è che noi non ci riusciamo? Del resto nella sua storia il movimento studenti è sempre stato in prima linea per le riforme: è anche grazie al MSAC che è stato fondato il tavolo delle associazioni studentesche al MIUR (un tavolo parallelo per gli universitari non esiste, ad esempio) e il msac è anche l’aggregazione di studenti cattolici più antica (e diciamolo, pure più numerosa) in Italia. Buon sangue non mente, allora, se saremo e sapremo essere studenti sovrani!

Azione: risvegliamo la passione per le città dell’uomo

Azione non è solo la prima parola della dicitura Azione cattolica. Dice un impegno. Un impegno ad agire, ad essere sale, lievito, luce, in ogni contesto della nostra quotidianità. E oltre che con la scuola, il nostro quotidiano ci interpella ad interagire con le nostre città, con il vivere comune, per il bene di tutti. Ogni msacchino vive questa cittadinanza verso il mondo a livello personale, ma la trasforma anche in un impegno di gruppo.

Quando ero msacchina nella mia diocesi ero rimasta affascinata da alcuni circoli – i più forti di tutti in questo campo erano quelli pugliesi – che avevano sviluppato un particolare impegno nel sociale: organizzavano campagne di sensibilizzazione e iniziative sul fronte della difesa dei diritti umani (era appena scoppiata la guerra in Afghanistan, dopo l’11 settembre), dello sviluppo sostenibile, della legalità. Il MSAC nella sua storia è sempre stato capace di sfide profetiche e di appassionare gli studenti e i giovanissimi nell’impegno di cittadinanza. Siamo tra i fondatori di Libera, collaboravamo con l’associazione Cittadinanzattiva. Adesso queste collaborazioni, almeno a livello nazionale, sono cadute nel dimenticatoio. Quello dell’impegno sociale è un fronte che dobbiamo assolutamente recuperare, sia a livello nazionale che soprattutto nei circoli. Dobbiamo essere capaci di testimonianze esemplari, vivere da cittadini degni del Vangelo, e in questo trasformarci pure in sentinelle della cittadinanza anche all’interno della stessa AC. C’è infatti sempre bisogno di invitare i nostri coetanei e la stessa associazione ad allargare gli orizzonti e interessarsi e spendersi anche per ciò che è oltre il recinto del cortile di casa. Come le sentinelle, in questo dobbiamo avere una marcia in più… essere cioè un po’ più avanti per tirarci dietro chi per questi temi si interessa e fa poco più che altro perché non ha mai avuto modo di appassionarsi a questa dimensione della partecipazione. Noi dobbiamo sentirci chiamati ad offrire questa possibilità: innanzitutto a noi stessi e poi a tutti gli studenti. É questo il compito proprio di un “movimento”, essere cioè avanguardie d’impegno e sensibilità.

A questo fine abbiamo voluto rilanciare la proposta degli Orientamenti Culturali. La newsletter P&D express che ogni mese vi arriva nella casella di posta elettronica (di cui va ringraziato Armando per la puntualità e il grado di approfondimento) non serve a nient’altro che a questo. Vi offre schede di studio e di informazione, schede che nascono dall’attualità di ciò che è successo durante il mese. Sono schede che integrano la proposta del P&D on line, fissata all’inizio dell’anno, per permettervi di parlare nelle scuole di temi realmente sentiti come urgenti.

L’appello è uno solo: usatele! Trasformatele in attività, in cineforum, in incontri di studio, in tavole rotonde. Sono il sussidio per i vostri Orientamenti Culturali, da fare – questi sì! – non solo a scuola, proprio perché devono essere aperti a tutti, offerti alla cittadinanza e soprattutto ai giovani.

Buon sangue non mente allora se sapremo essere gente che ha il coraggio di osare e coltiva con fatica e con passione l’appartenenza al mondo

Cattolica: ai blocchi di partenza la strepitosa avventura del primo annuncio

L’ultima parola è CATTOLICA. Questo è stato uno dei frutti più nuovi di questo triennio. Viene da una riflessione lunga, cominciata già il triennio scorso, da Nisia e don Adriano. Quella famosa stanza chiamata “Primo annuncio”, che spesso nella prassi delle diocesi e del centro nazionale rimaneva inapplicata, proprio non ci andava giù. Vederla ridotta a contenitore dei momenti di spiritualità del gruppo non ci sembrava sufficiente, non all’altezza della preziosità che c’era dietro alla sua proposta. Abbiamo allora riunito una commissione speciale – che così ho qui modo di ringraziare – composta non solo dalla segreteria nazionale e membri dell’equipe, ma soprattutto da segretari e assistenti diocesani, insieme anche ad una rappresentanza di vice giovani dalle diocesi e dalle regioni. Ci siamo fatti aiutare da teologi, pastoralisti, ma siamo stati soprattutto guidati dalle indicazioni emerse dai vostri suggerimenti raccolti con il questionario sul primo annuncio che abbiamo distribuito ad un campo nazionale tempo fa. Ci siamo dati tempo – molto tempo, quasi un anno! – per lasciar decantare dentro ciascuno di noi quanto pian piano maturava, vivendo un dibattito ed un confronto davvero fecondi, che ci hanno portato a discutere con passione, con instancabilità e a volte persino con veemenza, contemporaneamente addomesticando noi stessi a rispettare – e personalmente, data la mia nota testardaggine, non è stato facile – la diversità dei punti di vista nel nostro piccolo gruppo che spesso rispecchiava la stessa diversità degli approcci e delle esperienze delle varie diocesi. Alla fine abbiamo trascritto i nostri appunti in un sussidio. Li abbiamo chiamati “appunti”, infatti, proprio perché sono un work in progress, che va tutto sperimentato, realizzato, verificato. Troverete tre diverse piste, che dicono tre punti di vista differenti.

Il primo è quello dei Punti di domanda, realizzati a scuola da studenti per altri studenti, insomma, dei Punti di incontro in formato “special”. La misura della straordinarietà di questi punti di incontro  consiste infatti nel mettere a tema questioni “difficili”, interrogativi esistenziali, dilemmi culturali ed etici, per provare a discuterne insieme, talora invitando anche degli esperti, ma soprattutto con lo stile di un ritrovo tra pari: studenti che ne parlano con altri studenti e non per trovare risposte, ma soprattutto per condividere domande. Chiacchierate da vivere quindi con lo stile msacchino di chi condivide la strada con i coetanei senza avere in tasca le soluzioni ai tanti “punti di domanda” della vita. E’ un’attività di gruppo che combacia perfettamente con lo stile che ciascun msacchino è chiamato a vivere nell’incontro con l’altro. Sono palestre, insomma, in cui si impara l’apostolato del simile verso il simile nella quotidianità di un annuncio e di una testimonianza che rende noi cristiani uomini in mezzo agli altri uomini eppure con una marcia in più, per cui prima o poi qualcuno affascinato dallo stile della coerenza evangelica verrà a chiederci, come dice san Pietro, “le ragioni della nostra speranza”.

La seconda pista comprende proposte più strutturate per far conoscere il cristianesimo e la figura di Gesù, insomma per parlare di fede in senso più “esplicito”, magari proprio per rimediare a quelle ore di religione fatte tanto male. In termini teologici questo tipo di annuncio si chiama “testimonianza confessante”, ovvero di chi fa annuncio enunciando direttamente le proposizioni di fede e la dottrina cattolica. Il programma dell’IRC (= insegnamento religione cattolica) potrebbe proprio essere la traccia per questi incontri, ma la creatività msacchina può sviluppare su questi temi percorsi artistici, culturali, musicali. In un tempo in cui nelle librerie spopolano libri – non sempre di ottima qualità, anzi – sul Gesù storico o sui pretesi “segreti” delle prime comunità cristiane, c’è bisogno anche di questo tipo di testimonianza, capace di far conoscere e far appassionare alla persona di Gesù con un approccio che forse i nostri compagni non hanno mai visto (oltre alle pessime ore di religione a scuola, si incontrano spesso pessimi catechisti). Ovviamente, in questo tipo di incontri, occorre la figura di un assistente o un animatore “adulto nella fede” per accompagnare il gruppo dei partecipanti. L’approccio quindi, rispetto alla prima pista, è diverso non solo per temi, ma soprattutto per obiettivi e la diversa relazione che si instaura tra i partecipanti e gli organizzatori.

La terza pista, infine, sviluppa percorsi per “essere segno”, cioè testimoni di speranza attraverso l’impegno. Non c’è dunque un annuncio esplicito come nella prima pista, né si affrontano esplicitamente domande cruciali dell’esistenza come nella prima. Si tratta di essere testimoni secondo quanto ci ha trasmesso quel bellissimo classico della letteratura cristiana e che è la Lettera a Diogneto. Cittadini, uomini tra gli altri, che compiono scelte che sono in sé stesse un “segno”, capaci cioè di suscitare nell’altro uno stimolo, un esempio, delle domande che vanno in profondità. Significa come gruppo msacchino aprire la scuola ad attività di volontariato, di impegno solidale, gesti (perché i “segni” hanno sempre bisogno della concretezza dei gesti) di fraternità, generosità, solidarietà. Significa organizzare campi di lavoro, raccolte alimentari, ecc… ed invitare a queste iniziative i propri compagni di scuola.

Alla fine sono stata un po’ lunga e tutto quello che vi ho detto qui lo ritrovate nel documento congressuale e soprattutto nel libretto di “appunti” per il primo annuncio che è scaricabile dal sito e che abbiamo stampato in tantissime copie. Quello che conta è ricordare che queste tre vie che vi abbiamo proposte per affrontare la missione del primo annuncio non si escludono l’un l’altra, ma anzi sono complementari. Vi auguro quindi di realizzarne almeno due su tre, a vostra scelta! Ma non rinunciate a realizzare la proposta del Primo annuncio nel vostro circolo!

Perché vedete, la misura “alta” dell’asticella ci impone di non fermarci mai, di trovare innanzitutto un vocabolario per raccontare la fede, perché la facciamo tutti l’esperienza di trovarci davanti ad un compagno di scuola che affronta un problema grave, magari un dolore, e non sapere davvero cosa dire, cosa fare, tranne il fatto semplicemente di ESSERCI. Però tutti insieme come Movimento Studenti possiamo allenarci e imparare ad essere ciascuno segno, testimone, nella sua quotidianità e insieme come gruppo provare a realizzare nelle scuole delle occasioni per i nostri compagni che li aiutino a superare lo scoglio del varcare “la soglia”. Per soglia intendo la soglia delle nostre chiese, dei locali parrocchiali, che non ci rendiamo spesso conto di quanto siano difficili per i nostri compagni da varcare, per cui tante volte un’iniziativa stupenda realizzata non a scuola ma in oratorio non è efficace proprio perché non incontra gli studenti nel loro campo.

Allora vi auguro di riuscire a creare nelle vostre scuole luoghi di condivisione non solo dell’impegno e della passione studentesca, ma anche di domande di senso. Buon sangue non mentirà se sapremo essere testimoni di fede, innanzitutto col nostro essere. Ma capaci anche di trovare un alfabeto per raccontare ai compagni la gioia dell’Incontro con Lui.

LA BAMBOLINA: su cosa ho centrato la mia vita?

Mi avvio adesso alla parte finale della relazione, cioè una conclusione un po’ personale e perdonatemi se sono stata lunga, lo so che non ce la fate più, ma me lo concederete, dato che questo è anche il mio ultimo saluto a voi, no?

C’è una riflessione che mi preme tanto condividere con voi, una riflessione sulla nostra responsabilità, sul nostro servizio. Quello che dirò non c’è sul documento congressuale ma mi pare che anche il congresso nazionale debba e urgentemente rifletterci sopra e ho tanto desiderio di sapere su questo punto voi cosa ne pensiate.

Starete tutti attendendo da me notizie sulle candidature espresse per la Segreteria nazionale e che dovremo votare stasera. E’ stato un percorso difficile, non ve lo nascondo. Abbiamo faticato tanto e per tutto un triennio abbiamo profuso energie, parole, lacrime e preghiere in misura davvero inimmaginabile per reinserire in qualche modo la doppia responsabilità del segretario nazionale. Alla fine la formula che ci è stato possibile portare a conclusione è stata quella del vicesegretario: un modo per non modificare lo statuto dell’AC, aggiornato ancora troppo poco tempo fa, e contemporaneamente recuperare tutta la ricchezza di quell’essere in due a condividere la responsabilità del movimento, che – lo ricordiamo perché fa bene ricordarlo – era la prassi naturale del movimento e di tutta la sua storia. Solo nel 2004 è stata introdotta la riduzione al segretario unico, formula che Nisia, che mi ha immediatamente preceduto, ha sperimentato per prima.

Abbiamo quindi voluto, fortissimamente voluto, due responsabili. Dato che non si potevano mettere due segretari, ma per forza un vice, abbiamo fatto in modo – e in equipe ne abbiamo discusso moltissimo! – che mantenessero comunque nei fatti, se non nello statuto, un piano di parità ed è per questo che non li abbiamo pensati dello stesso sesso, anche perché volevamo salvare questa complementarietà tra differenti sensibilità che è patrimonio della prassi di tutta l’associazione, che conosce solo responsabilità condivise tra uomo e donna. É una scelta che chiaramente – soprattutto in fase di candidatura – ha i suoi costi, ma che ci è sembrata irrinunciabile.

Abbiamo voluto poi un meccanismo di votazione a doppio turno, per cui si votano la prima volta due membri di segreteria, tra le due liste maschile e femminile, in modo che non possano essere tra loro in “competizione” e solo nella seconda votazione un ballottaggio decide tra i due la carica di segretario. Può sembrare un meccanismo aggravato, ma è stata una clausola che abbiamo ritenuto necessaria per garantire che i due eletti fossero nella sostanza alla pari, distinti solo per certe funzioni di rappresentanza previste dallo statuto per l’uno e non per l’altro, come la partecipazione al Consiglio nazionale dell’AC ad esempio.

Dopo tutta questa fatica però ad oggi posso dirvi che non abbiamo riscontrato abbastanza candidature per applicare da subito questa importante novità. Abbiamo chiesto a molte persone, sei in tutto tra uomini e donne, e da molti di loro abbiamo ricevuto dei no. Per tutti so che è stata una decisione sofferta, a tanti è stato chiesto di ripensarci fino all’ultimo minuto, non è stato un tempo di discernimento facile né per noi né per loro. Alla fine una sola persona ha confermato, nonostante tutte le tempeste, personali e associative, il suo sì, il sì di Maria dell’Annunciazione, il sì che ricordiamo l’8 dicembre. Ed è stato un 8 dicembre di qualche anno fa che l’ho conosciuta. So che lei se lo ricorda. É Elena Poser che voi tutti conoscete come membro di segreteria aggregatasi al nostro gruppo negli ultimi mesi, ma che ci ha portato una vera ventata di coraggio e di passione. A lei grazie, grazie da parte di tutti noi, dell’Equipe, della Segreteria, per la disponibilità a prendere per mano il movimento bambino e portarlo alle soglie del 2014. Il fatto che sia l’unica candidata non sminuisce la sua disponibilità, anzi, testimonia molto di più il suo coraggio e non sono frasi fatte, perché – scusatemi ma questo lo devo proprio dire e fatevelo dire da una che ha detto codardamente di no tante volte – ci vuole molto più coraggio a dire di sì che no, al contrario di tutte le etiche filmiche che ci hanno assuefatto a pensare che fa molto più fico negarsi o ci vuole più coraggio a fare gran rifiuti alla Celestino V. Ci vuole molto più fegato ad iniziare e portare avanti fino alla fine, per tre lunghi anni, un’avventura in cui sappiamo che non avremo mai forze abbastanza e finiremo prima o poi a fare i conti con la nostra fragilità e con i nostri limiti, persino quelli fisici, eppure affidarsi come se non si appartenesse più a sé stessi, dando la propria disponibilità a diventare strumento della volontà di altri. Del Signore, innanzitutto, e poi anche del voto del congresso, che segna la differenza tra la candidatura che scegli tu e l’elezione dove ti scelgono altri.

Sarò dura, ragazzi, ma da tutte queste vicende di vera fatica di responsabilità vorrei trarre alcune considerazioni che mi sembrano urgenti. Pur rispettando le personali e sofferte ragioni per cui a volte siamo costretti a dire dei no, mi pare di vedere che negli ultimi tempi c’è tra noi una gran paura della responsabilità. Vorrei quindi lasciarvi a questo proposito, come antidoto a queste paure – e le paure, cosa per la quale siamo fragilissimi e tanto bisognosi di sostegno, sono sempre orribili perché capaci di immobilizzarci e renderci incapaci di scelte e di avventure – un piccolo ricordo che spero coltiverete nel vostro cuore, come immagine che vi ricorderà me ma soprattutto come obiettivo di lavoro dentro noi stessi. Io almeno vi prometto che ci lavorerò sopra, perché ne ho sempre bisogno.

Ho tenuto coperto per tutto questo tempo questo oggetto misterioso qui accanto a me: adesso lo scoperchio e ve lo mostro.…

Lo so, è in tema con la locandina bambinesca… sapete come si chiama?  è  una bambola russa che in italiano si traduce con “sempre in piedi”. Questa bamboletta infatti non cade mai. Non c’è nulla, nessuna forza, nessun piano inclinato che possa farla finire a terra. E quando la guardo penso a tutti voi, a tutti noi. E’ un’immagine che ho usato nei miei colloqui con tutti i candidabili e che forse loro avranno riconosciuto e a loro dedico, ringraziandoli di cuore per ciò che ho imparato e quanto condiviso nelle nostre chiacchierate.

Sapete, queste bamboline per tenersi su in questo modo hanno un gioco di baricentro, c’è il peso piazzato alla base in un certo modo per cui anche se la base è tonda non perdono mai l’equilibrio…

Vorrei che fossimo tutti come queste bamboline. Può passare qualsiasi tempesta, qualsiasi turbine e noi staremo sempre fermi, sempre saldi, sempre in piedi.

Non importa l’intensità della tempesta che si abbatterà su di noi. Non importa quanta fatica, lacrime, stanchezza potremo accumulare. L’importante è conservare questo centro. trasferiti in un altro continente, in un altra città o con le più difficili situazioni di vita, l’importante è non cercare il centro fuori di noi ma dentro. Già, facile a dirsi, ma come si trova questo “centro”, qual è?

Ragazzi, è giunto il momento di chiedersi su che cosa abbiamo centrato la nostra vita.

IL CENTRO IN LUI: specchiarsi nel disegno di Dio.

Manco a dirlo, il centro è ovviamente l’incontro con Lui. In Lui, Gesù nostro Signore sentito come persona, amico, fratello, maestro, è tutto il centro del nostro agire, pensare, essere. Non siamo e siamo senza equilibrio se non in stretta compagnia con lui. Frase da manuale da pastorale giovanile, su cui tutti siamo d’accordo, ma al momento di passare dai fatti alla teoria è difficile capire a che cosa – in questo caso a chi – ci stiamo riferendo.

Allora in questo, almeno per me così è ed è stato, ci viene incontro mamma Ac, sempre maestra di vita e di fede. Con lei traduciamo questa teoria non tanto in azioni, ma proprio in fatti, in vissuto quotidiano, consapevolezza di ogni giorno che a volte hai proprio bisogno di astrarti un po’ per renderti conto che c’è e di come sarebbe la vita se non ci fosse. Allora il centro me l’ha insegnato proprio l’Azione cattolica a trovarlo e dopo averci riflettuto un bel po’ penso di potervelo raccontare semplicemente dicendo un solo concetto. Magari è valido solo per me, ma a me pare che sia proprio la cifra del cosiddetto “carisma” proprio della nostra associazione. É il coltivare spazi di gratuità.

Se ci pensate, è la stessa cosa che intendevano i ragazzi di Barbiana quando scrivevano che il fine grande è donarsi al prossimo. Quando ci sentiamo vincolati e un po’ oppressi dal servizio, quando ci pare che il servizio ci tolga qualcosa, dovremo ricordarci che sono invece gli spazi di gratuità che ci salvano, che ci liberano da ogni dipendenza. E parlo della dipendenza da noi stessi, dall’autocentrismo, dal rendere giganti i nostri casi personali. Vi è mai capitato di avere un problema grosso, ma proprio grosso, quasi insormontabile e poi di rendervi conto di quanto fosse relativo dopo una giornata un pomeriggio o anche solo un’oretta passata ad ascoltare i problemi di qualcun altro?

É il tempo donato che salva il modo di gestire il nostro tempo, che ce lo allarga, ce lo allunga, ce lo dilata a dismisura. E non solo perché già su questa terra ci è stato promesso il cento volte tanto di quello che diamo. É il tempo donato che ci salva dai nostri limiti, dai limiti del nostro cuore. Diceva un’indimenticata vicepresidente giovani di qualche anno fa, Ilaria Vellani: «la democraticità nell’associazione è un esercizio che ci salva: salva l’associazione e ci salva da noi stessi, dal sentirci indispensabili, insostituibili». Sì, siamo servi inutili. Ma soprattutto siamo vite inutili se non siamo vite donate. Che sia la nostra famiglia, il nostro futuro compagno o compagna, i nostri amici oppure una comunità di fratelli, la nostra vita ha senso solo nel dono. Perché noi, come cristiani, sappiamo, come diceva San Paolo, di non appartenere a noi stessi, ma a Dio. Vorrei tanto che queste che vi dico non fossero parole messe in bella scena, ma vita! E spero che questo valga anche per me.

Se ci pensate, siamo creature proprio perché ogni cosa che siamo o abbiamo ci è stata donata. Il nostro tempo, le nostre qualità, i nostri talenti, anche i nostri limiti. Ci è stato donato tutto da Lui che ci ha messo in condizione di poter accogliere un servizio, di poterne avere le forze (non ci mette mai davanti a carichi troppo pesanti per le nostre spalle. non lo diceva Manzoni?), che ci ha messo accanto a certe persone, nella nostra famiglia, parrocchia, nelle nostre amicizie associative, nella nostra condizione di studio, di vita. Per questo, fino a che misura possiamo dire che il tempo, la vita “è nostra”? Fino a che punto possiamo dire al Signore dei no quando ci mette davanti a delle scelte?

Guardate, non sono una talebana, non voglio indurvi ad una radicalità senza limiti e senza criterio. A volte il Signore ci chiama proprio a dire dei no, a discernere la risposta giusta da dare. Allora, qual è questo criterio per il nostro discernimento?

Vedete, noi ce l’abbiamo già: è realizzare il progetto che Dio ha in ciascuno di noi. E per farlo abbiamo uno strumento che è bussola al nostro cammino. Possiamo usare il Vangelo come specchio. Per guardarci dentro e vedere cosa aggiustare, un esercizio quotidiano di confronto con la Parola: proprio come ogni giorno prima di lanciarci nelle strade della quotidianità diamo gli ultimi ritocchi alla capigliatura. Uno specchio in cui ci scopriremo fatti ad immagine di Dio.

L’uomo dalla testa ben fatta o se preferite dalla base ben centrata ha dunque come primo segreto il quotidiano confronto con la Parola, proprio per essere capace di illuminare le sue scelte e affidare totalmente la propria vita a Lui.

LA RADICALITÁ DEL PANE SPEZZATO: allenamento a dire sì

Vi dicevo che io vedo una grande emergenza di responsabilità, generalizzata, al di là delle giuste e dolorose ragioni per cui ciascuno, anche alla luce di un discernimento sano fatto in compagnia del Signore, capisce che per la propria vita in questo momento è tempo di dire dei no.

Non sono quindi riferimenti personali, ma sono cose che dico innanzitutto a me stessa, proprio per cercare di capire che cosa significa fino in fondo questa parola gratuità che a me sembra una traduzione tanto concreta di quel “centro” su cui può reggersi la bambolina.

Spesso siamo spaventati dal servizio proprio perché, oltre a regalarci grandiose esperienze e tanta crescita, ci chiede molto sacrificio. Del nostro tempo, delle nostre forze, e abbiamo paura soprattutto di toglierle ad altre cose ugualmente importanti: il nostro studio, il nostro lavoro, la nostra famiglia, i nostri affetti, la nostra vita insomma. Siamo spaventati di togliere tasselli a quello stesso progetto di vita che stiamo faticosamente costruendo ogni giorno. La domanda del servizio può venire a sconquassare questo progetto lineare, a impastarci i piani. Ma io vorrei proprio invitarvi a questa considerazione: se il tempo che abbiamo non è nostro, ma è dono Suo, se quello che siamo e che sappiamo fare non viene che da Lui, in che cosa si centra la nostra vita se non nel progetto che Lui ha su di noi? E guardate, il piano del Signore sulle nostre vite non è che se ne può avere consapevolezza una volta per tutte: “le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri”… Si può arrivare a ottant’anni e scoprire che il Signore su di noi aveva tutti altri piani e che il conto ci viene chiesto proprio quando invece pensavamo di poter riposare (pensate a papa Giovanni!). Dobbiamo avere consapevolezza che è il Signore che guida i nostri passi e ci mette in situazioni e contesti che interpellano sempre la nostra responsabilità, parola che non vuol dire altro che capacità di dare risposte, di rimboccarci le maniche. Da questa consapevolezza, verrà la disponibilità a lasciare che il Signore ogni volta e quando vuole ci scombini la vita, ci induca a riprogettare i nostri piani, ci inviti alla gratuità, cioè ci aiuti a non centrare la vita solo su noi stessi e sulle esigenze nostre e di chi per osmosi abbiamo agglomerato nell’insieme “Io” (per cui spesso anche il fidanzato/fidanzata o la nostra famiglia diventa una nostra protesi e non esaurisce la dimensione dell’Altro, anche se ci chiede tanta capacità di donazione).

Io vi faccio questo augurio e lo faccio anche a me: che possiamo allenarci sempre più a dire di sì. Se siamo disponibili al servizio solo quando è gratificante, se quando c’è una difficoltà ci ritiriamo perché non ne vale la pena, che testimonianza è la nostra, quale il sacrificio, la docilità, l’affidamento al Signore che ci è chiesto? Che testimoni vogliamo essere? Puntiamo alla santità! Dico una cosa un po’ fortina: il pane non spezzato possa rimanerci sul gozzo! Alleniamoci a spazi di gratuità. Altrimenti che cosa intendiamo con lo slogan associativo – e che è preso dal Vangelo – gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date? Che vuol dire gratuitamente se non con sacrificio? A donare ciò che è superfluo siamo bravi tutti! Puntiamo alla santità!

Pecchiamo radicalmente di assenteismo educativo, quando volutamente dribbliamo la proposta della santità. Una santità che declina tutti i linguaggi dell’uomo: della libertà, dell’amore, dello svago, dello studio, della famiglia, perfino dello sport. Puntiamo alle mete più alte. Come diceva don Tonino Bello, siamo uomini fino in cima, perchè essere uomini fino in cima significa esser santi. Non fermiamoci perciò a mezza via, la santità non sopporta misure discrete!

Questa è la notizia straordinaria della possibilità offerta a tutti di realizzare in pienezza ed autenticità la propria esistenza. Una santità che si gioca nelle pieghe della vita quotidiana, la nostra vita quotidiana. Una santità che non ci chiede di mortificare il nostro essere studente, figlio, fidanzato, ma che chiede di viverlo fino in fondo proprio per salvare questi affetti, con una radicalità che dà pienezza di senso all’esistenza. Altrimenti che cosa vuol dire essere cristiani?

I santi sono persone realizzate, uomini e donne che hanno fatto la volontà di Dio e hanno capito che proprio in questo consisteva la felicità. Allora capite che cosa vuol dire quello che intendeva Bachelet, quando diceva che il servizio è la gioia? I santi si sono fidati di Dio, mettendo nelle sue mani le loro vite. Non ci metta paura la santità, se significa solo vivere in pienezza la vita! Non ci spaventi neanche la volontà di Dio, se significa fidarci di uno che da sempre ha in mano i nostri sentieri. Non ci spaventi il servizio se quello che siamo lo dobbiamo a Lui e vale sempre la pena di tentare di saldare il conto!

Allora dire dei sì è l’occasione della vita, capace di allargare i nostri spazi ristretti e permetterci di relativizzare ogni cosa! Ti spinge a fare i conti della vita non soltanto con la tua testa, con le idee e i progetti e le strade che ti sei fatto tu, ma secondo il progetto che Lui ha per te. É un allenamento continuo a non bastare a sé stessi. É una grazia grande!

Ciascuno il suo sì deve strapparselo dalla propria avarizia personale (anche questo lo dicevano i ragazzi di Barbiana). Ma quando ti alleni a dire il tuo primo “ci sto”, allargare gli spazi della propria disponibilità diventa sempre più facile e ti alleni a dire dei sì più grandi, proprio come l’atleta che solo con l’impegno di ogni giorno fa salti sempre più grandi, superando un’asticella ancora più alta. É la girandola dei sì, come i confetti, come le margherite, come i Fonzies, se preferite, uno tira l’altro. Questo non ci spaventi, ma ci entusiasmi! Sarà una tensione continua, tra paura e abbandono, come per il sì di Maria. La paura non deve prevalere, ma non è una brutta cosa, perché una sana paura salvaguarda l’autocomprensione di sé, la consapevolezza dei propri limiti, la coscienza di quale sia effettivamente il disegno di Dio su di noi.  Serve anche a farci capire cosa vuol dire abbandono, affidamento. E se non c’è abbandono ci sarà soltanto l’abbaglio del proprio orgoglio, l’abbaglio del voler vivere la vita secondo i propri schemi. L’uomo dalla testa ben fatta o dalla base ben centrata fonda quindi tutta la sua vita sulla gratuità, che vuol dire quindi capacità di non vivere per sé stesso e affidarsi a Dio, centrare insomma tutto su di Lui.

Gli affetti salvati: Zarepta

Vorrei chiudere lasciandovi un’altra immagine che vorrebbe essere di incoraggiamento. Dopo avervi strigliato ben bene con questa storia del pane non spezzato che rimane sul gozzo, non vorrei darvi l’impressione di essere una che vorrebbe che bruciassimo tutto sul fuoco, abbandonassimo tutto per seguire celestialmente Gesù. Neanche lui lo vuole, né l’ha mai voluto.

Vorrei riproporvi un’immagine che ho raccontato il giorno che fui eletta segretaria nazionale, al Congresso di tre anni fa. Erano le mie prime parole dopo l’elezione. É un’icona biblica che mi è molto cara proprio perché, in un Giovedì Santo di tre anni fa, mi ha dato la forza di dire il mio sì e vorrei regalarvela, come un testimone da passarvi, che spero vi faccia il bene che ha fatto a me.

Al tempo del profeta Elia c’era in Palestina una durissima carestia, durata parecchi anni. Anche il profeta stava rischiando di morire, perché si era prosciugato il fiume presso cui si era rifugiato. Il Signore però volle salvarlo e gli disse: «Alzati, va’ a Zarepta di Sidone. Ecco, io ho comandato ad una vedova di là di provvedere a te». Zarepta di Sidone era un villaggio di una terra lontana ma soprattutto pagana. Elia però ubbidì alla Parola del Signore – s’è fidato, appunto! – e andò. Nessun’altra certezza che la parola del Signore.

Arrivato a Zarepta, all’ingresso del villaggio, al pozzo – gli incontri della Bibbia sono spesso intorno ad un pozzo – incontrò la vedova che Dio gli aveva detto. Le chiese quindi da bere e mentre quella andava, le urlò dietro di portargli anche da mangiare. Quella poveretta tornò indietro, lo guardò allibita e non disse di no, ma la risposta che diede parlava da sé ed era terribile: «Non ho più nulla. Mi è rimasto un pugno di farina nella giara e poche gocce d’olio nell’orcio. Ora tornerò a casa, ne farò una focaccia per me e mio figlio e ne mangeremo. Dopo moriremo». Non aveva insomma cibo nemmeno per sé né per la sua famiglia, come poteva aiutare Elia, come poteva rispondere alla chiamata del Signore, che pure le aveva ordinato di prendersi cura del profeta, se aveva così poche risorse?

Ci sentiamo spesso come la vedova di Zarepta. Almeno, parlo per me, mi sono sentita spesso svuotata, priva di energie, di idee, di carismi e talenti da mettere a frutto per questo servizio. Come la giara di Zarepta. Il Signore chiede qualcosa più grande di noi. È dura riconoscere di non essere in grado e che pure il Signore ti chiede di servire, con quello che sei. Ma nell’icona di Zarepta c’è di più: penso anche a noi, alla nostra esperienza di segretari diocesani. Abbiamo le nostre vite da portare avanti, la responsabilità nei confronti dei nostri affetti, delle nostre famiglie, del nostro studio, come la vedova aveva il proprio figlio, che amava e che pure Dio le aveva affidato. La cosa più importante per la sua vita e non è il caso di giocare mettendo sui piatti della bilancia suo figlio e Dio. Come rispondere alla chiamata del Signore pur con la povertà di quel pugno di farina e quel goccio d’olio?

Vi dico come andò a finire. Elia le disse: «ho capito, ma tu fammi lo stesso una focaccia». La vedova si fidò della Parola del Signore. Portò Elia a casa sua, prese la farina e l’olio e preparò le sue focacce. Ne mangiarono, Elia, lei e suo figlio per diversi giorni, per anni, fino alla fine della carestia. E la farina nella giara e l’olio nell’orcio non vennero mai meno, per il tempo che fu necessario. Il Signore ci metteva il supplemento! Che cosa significa questo? Con questo gesto umile e obbediente di servizio la vedova di Zarepta salvò il profeta, certo. Ma c’è di più: salvò anche se stessa e la propria famiglia! Se non avesse detto di sì al Signore, se non avesse preso Elia nella sua casa e non si fosse fidata, che ne sarebbe stato di lei e di suo figlio?

Il Signore non ci chiede mai nulla di troppo difficile e lo stesso servire è strumento della sua Grazia che ci salva. Ecco, allora questo è il mio augurio, quello che in questo tempo ho imparato e che condivido con voi, perché possa parlare anche alle vostre vite: lasciamoci salvare, lasciamoci incontrare da Lui! Non chiudiamoci nelle nostre pre-occupazioni, che fanno trovare al Signore il cuore non sgombro, pre-occupato, appunto, dai nostri piccoli e inconsapevoli egoismi. Che noi si possa essere sempre aperti ad un servizio generoso, certi che quel poco di farina che abbiamo basterà, sarà sufficiente, per tutto il tempo che sarà necessario e basterà a ciò che siamo chiamati a servire e alla nostra vita, con tutto il suo circolo di progetti e affetti. Che noi si possa essere uomini e donne dalla testa e dal cuore ben fatta e dalla base ben centrata in Lui, che è il vero protagonista.

Sì, davvero, sia per noi solo nel servizio che troveremo la gioia.

W il movimento!

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