Testimonianza di Simone Esposito, segretario nazionale MSAC 2002-2005 e vicepresidente nazionale di AC per il Settore giovani 2005-2008. Testo tratto dal suo saluto di apertura al XIV congresso nazionale MSAC, 8 aprile 2011.
Avevo 19 anni la prima volta che sono entrato qui, alla Domus Mariae, esattamente 10 anni fa, giorno più, giorno meno. Venivo da una piccola esperienza di Movimento, piccola ma intensissima, nella mia scuola di Lucera. Il Msac a Lucera l’avevamo fondato noi, un gruppetto di studenti di due istituti diversi al quale l’Ac diocesana aveva dato tanta, tanta fiducia: a 16 anni eravamo già praticamente tutti in Consiglio diocesano. Non perché fossimo chissà quali geni precoci dell’associazione, ma perché gli adulti volevano che ci appassionassimo all’esperienza dell’Ac, e si erano ricordati che il modo migliore per far venire la febbre a qualcuno è esporlo al contagio, e poi buttarlo in mezzo alla corrente. E a noi la febbre venne. A me non è passata più.
Poi arrivai qui a Roma per studiare, e i responsabili di allora del Movimento mi chiesero di dare una mano per la prima edizione della Sfs, che si tenne proprio qui dentro. Era il 2001. Non c’erano ancora i numeri degli anni seguenti, ma era davvero una novità, e questa sala, una sala sempre seriosa (pensate che una volta ci facevano i consigli nazionali della Dc: qui nel 1959 ci elessero segretario Aldo Moro), beh, questa sala esplodeva, i ragazzi finirono a ballare in piedi sui sedili, e quelli dell’albergo se la presero non poco. Da quella Sfs cominciò per me quell’avventura privilegiata che è stata la mia esperienza di responsabile nazionale dell’Ac, prima nella segreteria, poi come segretario (eletto qui, nove anni e un giorno fa), poi come vice giovani. Ripeto: un privilegio. Per le cose che ho vissuto, per il legame indissolubile che mi lega e sempre mi legherà agli amici che mi hanno accompagnato, ma soprattutto per la straordinaria esperienza di Chiesa che ho incontrato. L’Azione cattolica, e più di tutti il Movimento, mi hanno marchiato dentro a sangue le parole di Giacobbe nel capitolo 28 della Genesi: «in un certo luogo» dice il testo, Giacobbe si era addormentato, e aveva sognato «una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima toccava il cielo; e gli angeli di Dio salivano e scendevano per la scala», e da lì Dio gli parlava e gli ribadiva la sua promessa: la terra e la discendenza. E Giacobbe, svegliatosi dice una cosa sola: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo!». Questo mi porto dentro ancora, questo mi pare sia il compito vero del Movimento, nella scuola e tra i compagni: testimoniare che sì, anche se non lo sapevamo, anche se tutto intorno sembra smentirlo, anche se a volte ci pare che il mondo intero ci dica il contrario, sì, il Signore è qui, con la sua promessa, con il suo Vangelo, è qui, proprio qui, oggi, in questo luogo, in questa classe, in questa scuola, in questa mia città, in questa storia che è la mia.
Dicevo prima: la febbre non mi è passata. E oggi che sono il presidente della piccola e un po’ sgarrupata Azione cattolica di una piccola e un po’ sgarrupata parrocchia di questa città, e oggi che soprattutto sono l’animatore di quindici quindicenni di quella parrocchia, beh, non solo la febbre non mi passa, ma continua a salirmi.
E la febbre sale ancora nel vedere voi, venuti qui da tutta Italia, oggi come l’anno scorso a Rimini, come tre anni fa a Viterbo, come sei anni fa a Napoli, come nove anni fa a Roma, come cento e uno anni fa a Modena quando l’asinello del Movimento vide la luce.
Ecco che vuol dire “buon sangue non mente”. È il sangue di quelli che ci hanno preceduto, in questo secolo e mezzo di storia italiana, in questo secolo di storia msacchina, e che oggi vi consegnano questa eredità centenaria per aprire un nuovo capitolo, per crescere qualche centimetro in più, come il ragazzino del manifesto. È il sangue buono dei testimoni dell’Ac: Mario Fani, Giovanni Acquadernio, Giuseppe Toniolo, Armida Barelli, Pier Giorgio Frassati, Alberto Marvelli, Gianna Beretta Molla, Giorgio La Pira, Aldo Moro, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, Carlo Carretto, Mario Rossi, Vittorio Bachelet, che il suo sangue l’ha versato davvero, sul pavimento di un’università di questa città. E questo sangue non mente, perché grida ancora oggi, a noi e a tutti, la verità. E la verità, non una riga di più, non una riga di meno, è il Vangelo che questi amici, questi santi, hanno fatto scorrere nel loro sangue fino a farlo diventare tutt’uno con la loro vita. Questo buon sangue non mente.
Ma noi, dentro le nostre vene, questo sangue ce l’abbiamo? Il nostro cuore continua a pomparlo, a farlo circolare? I nostri polmoni continuano a dargli ossigeno, a dargli respiro? È questa la domanda che dobbiamo farci, oggi, ancora una volta. Perché non è così scontato, no, non lo è. C’è in corso, da sempre, e oggi più che mai, un colossale tentativo di avvelenarci il sangue, un processo che troppe volte ci sfugge, perché è subdolo, sottile, quasi invisibile, ma se non lo si combatte è inesorabile.
«Oggi mio padre mi ha sgridato, oggi proprio ne parlavo con mio padre… mio padre proprio mi ha detto – però basta con ‘ste stronzate… il lavoro verrà, come ha aiutato le altre aiuterà pure te… ma ascolta, mi ha detto: ti sei vista passare davanti e questa e l’altra e Giada, Isabella e Cristina… ma datti una mossa, ma svegliati!».
Sono le parole di una telefonata, agli atti di un processo, dove si racconta di un padre che rimprovera sua figlia per non aver approfittato abbastanza della sua intimità (fermiamoci qui) con un uomo molto ricco e molto potente. E quanto deve essere avvelenato il sangue di un uomo che si indigna davanti alla propria figlia, una ragazza di 23 anni, non perché non coltiva i propri talenti, non perché spreca le proprie capacità, non perché svende la propria dignità ma perché non la vende abbastanza, perché non ci ricava di più?
E quanto deve essere avvelenato il sangue di quella ragazza della periferia romana che, racconta lo scrittore e insegnante Marco Lodoli, un giorno in classe ha sentenziato: ormai pensare non serve più, c’è la tecnologia che pensa a tutto. Mentre una sua compagna di classe s’è fatta tatuare sulla schiena il logo di una casa di moda, Chanel, e quando il professore gli ha fatto notare che era triste, tristissimo, marchiarsi come un oggetto, come una cosa, lei ha risposto: «’A professo’, a me me piace, i gusti so’ gusti» (al che la bidella, più spiccia, ha commentato: «Potevi fatte tatua’ pure er codice a bare»).
Ragazzi: questi sono i nostri compagni di classe, i nostri amici, siamo noi. Questo veleno che respiriamo nell’aria tutti i giorni non ci mette paura come le radiazioni di Fukushima, ma è molto più pericoloso. È un veleno che vuole farci credere che le cose debbano sempre andare come vanno, che ognuno nasce con un destino e che solo i più svelti e i più furbi ce la fanno. È un veleno che vuole convincerci che i soldi, il sesso, la fama, il potere, sono gli ideali assoluti dell’unica vita che sia degna di essere vissuta, il vero Vangelo. E non crediamo di esserne immuni, di essere fuori, come se la cosa riguardasse solo gli altri. Scriveva quasi cent’anni fa nel suo Odio gli indifferenti Antonio Gramsci (e paradossalmente dobbiamo ringraziare due comici a Sanremo per avercelo ricordato, la classe politica non ne è stata capace): «Nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?».
Io credo che il nostro dovere, il dovere di tutti, sia racchiuso oggi in una parola: ribellione.
È una parola che prendo in prestito da un altro dei nostri antenati di Ac, da un altro che ha versato il suo “buon sangue”: si chiamava Teresio Olivelli. Molti di voi non lo conoscono. È stato un personaggio complicato: era un giovane brillante, che a soli 27 anni, nel 1943, era stato nominato rettore di un importante istituto universitario d’eccellenza, il Collegio Ghisleri di Pavia. Fino ad allora, Teresio era stato fascista. Ma non un fascista come tanti a quel tempo, all’acqua di rose, più per obbligo che per convinzione, quasi inconsapevole: piuttosto un fascista convinto, militante, uno capace di scrivere una cosa come questa: «Il razzismo fascista è la valorizzazione spirituale di un dato biologico». A un certo punto della sua vita Teresio matura dentro di sé una consapevolezza nuova, e cambia tutto: entra in clandestinità, diventa partigiano, e pagherà questa scelta con la vita, morendo in campo di concentramento, qualche giorno dopo aver compiuto 31 anni.
In montagna, da partigiano, Teresio scrive una preghiera: Signore, facci liberi. Vale la pena leggerla.
«Signore, che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dominanti, la sordità inerte della massa,
a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libera vita,
da’ la forza della ribellione.
Dio che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi:
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della Tua armatura.
Noi ti preghiamo, Signore.
Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocifisso, nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria: sii nell’indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell’amarezza.
Quanto più s’addensa e incupisce l’avversario, facci limpidi e diritti.
Nella tortura serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa’ che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e carità.
Tu che dicesti: “Io sono la resurrezione e la vita” rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
Signore della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore».
Ragazzi, sia chiaro: oggi non è la stessa cosa di allora. Non c’è la dittatura, e non è a un partito, a un politico o a un governo che ci si deve ribellare: per quello c’è la lotta politica e ci sono le elezioni, è lì che si dovrebbe decidere chi ci governa e come deve farlo. Ma resta forte intorno a noi quel veleno che ci incattivisce il sangue, quella cultura dominante che oggi passa anche dentro le nostre scuole, nelle università, nelle case e nelle piazze, e che ci vuole tutti con un codice a barre tatuato sul cuore. Una serie anonima di cifre, e un prezzo per ciascuno.
Ma noi sappiamo che «a caro prezzo siamo stati riscattati», e proprio dal sangue dell’Amore fatto persona: nostro Signore. E allora, ragazzi, oggi che tocca a voi girare questa nuova pagina di storia msacchina, non arrendetevi, non rassegnatevi a chi vi vuole vuoti, a chi vi vuole stupidi: ribellatevi. Ribellatevi, con lo stile di Gesù, con il Vangelo in mano, come i cristiani che ci hanno preceduto e che, come dice il Signore, hanno cercato prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia.
Ora tocca a voi: buon sangue non mente. W il Movimento!