Testimonianza di Umberto Folena – Segretario nazionale Msac dal 1977 al 1980
Nell’estate del 1977, da segretario nazionale del Msac di fresca elezione, mi ritrovai a crescere in fretta, ben oltre i miei 21 anni. Faccio alcuni esempi, ma pochi, per farla breve.
Il primo vero approccio con il Centro nazionale dell’Azione cattolica è la cosiddetta “scuola quadri” di Frascati. Ci arrivo ben zavorrato, con la mia Ibanez rossa e uno zaino militare che mi fa più largo che alto, ottimo per aprirsi i varchi nelle seconde classi delle ferrovie del tempo. Un collaboratore del Settore giovani (simpatico: siamo ancora amici) mi saluta e mi dice, con una sincerità che gli ho sempre riconosciuto: «Che cosa ci fai qui? Tanto tra pochi mesi al Seminario organizzativo vi chiudono».
Formalmente nessuno parlava di “chiusura”. Ma avrei saputo che il Seminario organizzativo, da cui sarebbe scaturito il nuovo Regolamento d’attuazione dello Statuto, poteva di fatto far assorbire il Movimento nel Settore giovani, a cui peraltro apparteneva a pieno titolo, togliendogli autonomia; di fatto estinguendolo. Venivo da una diocesi, Padova, dove Msac e Settore giovani convivevano e collaboravano senza alcun problema. Il Msac mi aveva dato tantissimo. E mi aveva eletto segretario. Decisi che non mi sarei più tolto lo zaino né avrei smesso di suonarle (le canzoni con la Ibanez), metaforicamente, fino a pericolo scongiurato. Ed anzi il Msac avrebbe dovuto smetterla di essere il Cenerentolo della compagnia, piccino e tollerato, con quella sua “pastorale d’ambiente” che era una sorta di alieno, un’entità misteriosa, chissà se esisteva o era una fantasia.
Al primo campo scuola nazionale mi ritrovo da solo, perché la segretaria nazionale è ammalata; e dopo anni di presenza costante, per la prima volta la mia diocesi non manda nessuno, così non ho amici e “complici” che mi diano conforto. Per fortuna c’è don Giuseppe Valensisi, l’assistente nazionale, che mi dà una fiducia che nessuno mi ha mai dato.
Durante le prime riunioni del Settore giovani, dietro la cordialità formale colgo una sottile diffidenza, oltre la sensazione di non contare un tubo. La diffidenza non la comprendevo. Che non contassi un tubo, e fossi a rischio estinzione, lo comprendevo perfettamente. Non sapevo neppure quanti fossimo, in Italia. Non c’era un archivio aggiornato. I contatti erano saltati. Per vincere la diffidenza potevo soltanto essere leale, sperando nella lealtà altrui (il solito illuso): non dipendeva soltanto da me. Il resto sì, dipendeva da me. Così, martellando il telefono, scrivendo lettere peggio dello scrivano fiorentino (sono nato a Firenze e me ne vanto) e mettendomi in viaggio per l’Italia ostinatamente in seconda classe, ovunque, nei primi mesi con don Giuseppe – splendido sodalizio, un magnifico assistente! – ci dividiamo l’Italia e la giriamo come trottole. Riallacciamo contatti e inauguriamo nuovi gruppi. Scopro i formidabili pisani, stringo l’amicizia con bresciani e cremaschi, lucchesi e anconitani; in Puglia fioriscono Bari e Brindisi e tanti altri, e poi Palermo, Napoli, Terni e altri ancora, che a non sentirsi nominare non devono prendersela, ma sono troppi.
Niente catenaccio. Non basta sopravvivere, dobbiamo renderci rumorosi, presenti e irrinunciabili. Essere “movimento”, ossia creare una felice discontinuità. Provocare. È così che all’inizio del 1978 nasce “Presenza e dialogo – Studenti”. Il titolo è quel che è; viene scelto perché è l’unica testata che sia decente già depositata in Tribunale. Sentiamo il bisogno di qualcosa che ci unisca e mobiliti; uno strumento per dialogare, ed essere presenti, nelle scuole; non una rivista in abbonamento che giace sul comodino, ma uno strumento per fare pastorale d’ambiente, per far circolare idee, per fare opinione. Logico? No, per il Settore giovani no. Diffidenza? Chiamiamola così. Le premesse sono chiare: ci autofinanziamo, se andiamo sotto si chiude subito. Ma i dirigenti nicchiano, perdono tempo, posticipano la decisione. Io mi irrito e sbotto. Si sfiora l’incidente… “sfiora”, un eufemismo. Alla fine cedono. Il giornale si fa. In pochissimo tempo raggiunge le 20 mila copie diffuse: sono la prova che il Msac c’è, e sarà difficile “chiuderci”, divorarci, abolirci. Ma da allora saremo sempre i sorvegliati speciali.
Una pulsione autodistruttiva conviveva allora, nell’Ac, con tante tensioni sane e costruttive. Secondo i distruttivi, se non sei docile e remissivo c’è qualcosa sotto; sicuramente sei alleato del “nemico”. Ed allora il confronto più aspro – divertente e capace di rendere “viva” l’associazione, se un giorno il vincitore non avesse eliminato il vinto – era tra Settore giovani e Acr per l’annosa questione degli educatori (giovani) Acr. Di chi “erano”? A chi spettava offrire loro un itinerario formativo? All’Acr, svolgendo essi un servizio specializzato? Al settore giovani, essendo essi quasi tutti giovani?
Semplifico, ma ci finiva di mezzo anche il Msac: non eravamo giovani pure noi? Fatalmente mi ritrovai iscritto, a forza e senza che nessuno me ne avesse chiesto l’autorizzazione, nel “partito Acr”.
Ma intanto il Regolamento non ci aveva abolito; il movimento cresceva sano e di robusta costituzione, una nuova straordinaria segretaria era arrivata da Bari (Giovanna Aquaro) e io, non coltivando alcuna aspirazione a romanizzarmi, mi preparavo mentalmente a rientrare a Padova quando il Settore giovani, in una delle periodiche schermaglie, era il 1980, perdeva il vicepresidente per motivi d’età. Il presidente nazionale Mario Agnes chiedeva la mia disponibilità e io sciaguratamente la davo, per un anno solo… No, non fu così semplice. Lo dico, non lo dico? Non l’ho mai scritto, ma forse sono passati abbastanza anni per dirlo.
Prima di accettare o rifiutare, sentii il bisogno di chiedere il parere della mia diocesi, Padova. Il vicepresidente diocesano era un carissimo amico, oggi noto docente universitario. Partendo per Roma, nei primi mesi gli avevo perfino affidato la mia 600 grigia per i suoi giri in diocesi… insomma, un amico vero e fidato. Chiedo a lui di farsi tramite con la presidenza diocesana. E lui mi reca il responso: non crediamo – mi dice – che tu sia in grado di ricoprire quella carica. Però potresti suggerire a Mario Agnes il nome di V. S. (un padovano, collaboratore del Centro nazionale). Non mi parla di opportunità; mi parla di capacità.
Che V. fosse all’altezza di fare ciò che io non ero all’altezza, mi sembrava curioso. Per molti, con cui avevo lavorato per tre anni a Roma, io ero in grado. Mi sentii umiliato, per la secchezza dei toni. Ma grato per la schiettezza. Speravo che la mia diocesi avesse apprezzato che mi fossi consultato con lei. Alla fine decisi di accettare, sapendo che ne avrei pagato alcune conseguenze, anche a Padova. Forse le sto pagando ancora oggi, 30 anni dopo, ma non è bene che la storia remota si tramuti in cronaca.
In realtà la mia riconoscenza all’Azione cattolica tutta, nazionale e padovana, e al Msac in particolare, è enorme. Per certi versi sto ancora vivendo di rendita. Ho dato qualcosa, ho ricevuto molto. Le cose imparate non a tavolino, ma girando con lo zaino in seconda classe in tutta Italia, incontrando persone vere, vive, interessanti, allacciando rapporti, dando la carica e facendomela dare, tutto questo è risultato un patrimonio preziosissimo ogni giorno dei miei 25 anni da giornalista.
Tornassi indietro temo che rifarei tutto uguale… anzi no, andrei in giro con uno zaino ancora più grosso. Le spalle non sono mai abbastanza larghe.
Grande Umberto !!!