Testimonianza di Vittorio Sammarco – Direttore di Presenza & Dialogo Studenti e Collaboratore centrale Msac anni ‘80-’90
Gli anni nel Msac nazionale, in quel di Via della Conciliazione 1 a Roma, sono stati anni decisivi per la mia vita. E lo dico senza enfasi retorica, ma con una semplice constatazione. In quegli anni (dal 1988 al 1992) ho deciso di fare un mestiere diverso da quello per il quale avevo studiato e che fino a poco tempo prima avevo visto come un sogno: non più il magistrato, ma il giornalista.
C’è di più, e più importante. In quegli anni ho conosciuto la compagna della mia vita, l’ho sposata e sono nati tre splendidi figli. Per loro, senza dubbio, il Msac è stato davvero importante.
Ma a parte l’esperienza assolutamente personale, da quei formidabili anni ho appreso tantissimo, e credo non solo io. Dai lavori di gruppo, dalla preparazione dei campi-scuola, dalle riunioni di redazione del giornale e dei testi-guida, dalle Consulte, dai seminari e convegni, in ogni iniziativa emergeva in maniera costante uno stile, un metodo, un atteggiamento, un modo di relazionarsi con la vita e con le persone, fatto sostanzialmente di due significative parole: presenza e dialogo. Esatto, proprio quelle della testata che per un po’ di tempo ho indegnamente curato in prima persona.
Presenza come capacità, attitudine e voglia di metterci la faccia, di non tirarsi indietro, di esporsi, di far vedere che si è disposti a rischiare. Uno stile proprio di tutti i msacchini, che si matura quando tanti ti dicono (e soprattutto gli adulti), “lascia perdere… chi te lo fa fare… pensa ai fatti tuoi… non perdere tempo e pensa a studiare…”. E invece no, tu vuoi esserci, vuoi rispondere all’appello (“presente!”), vuoi dimostrare che ci credi, che credi nella possibilità di contribuire a fare la società migliore proprio a partire dalla scuola. Vuoi donarti, o donare parte del tuo tempo, delle tue energie come nella bellissima lingua portoghese si traduce il “presente o presentigno”, che dir si voglia quando si parla di regalo. Una dote così, la si acquisisce negli anni di pratica e se un po’ mi è rimasta addosso, in tempi in cui in molti si defilano evitando il coinvolgimento personale, spesso poco conveniente soprattutto quando è in gioco il bene comune, lo devo allo spirito di quegli anni.
Ed è una presenza, aggiungo, sempre da affiancare al compagno dialogo, al dia-logos, a quella parola che è innanzi tutto ascolto, messa in discussione, confronto, dialettica, ricerca comune. Parte dal riconoscimento che l’altro, il mio interlocutore può avere qualcosa d’importante da dire. Il dialogo come ponte, allora, come capacità di costruire basandosi su ciò che unisce e non su ciò che divide, di mettere in relazione e costruire reti. Formidabili quegli anni che mi hanno insegnato a fare gioco di squadra, ad unire, a dialogare per scoprire che, guarda un po’, “due più due spesso può fare cinque”! Il dialogo che è anche fatica, perché no! (quante riunioni duravano in modo spropositato ore e ore e spesso si aveva la sensazione di aver fatto solo pochi passi avanti…), ma che alla fine aiuta a crescere e a maturare in gruppo. Il dialogo che ci fa sentire parte della stessa insopprimibile ed entusiasmante vicenda umana. Alzi la mano chi può affermare che oggi non ci sia bisogno di vagonate di dialogo!
Ebbene, verrebbe voglia di dire: magari fossimo stati in milioni i msacchini… Con una dose industriale di presenza e dialogo, oggi, l’Italia, sarebbe certamente migliore.