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Erano gli anni

sabato, 30 gennaio 2010

Testimonianza di Madì Drello – Segretaria nazionale Msac anni ‘70

Erano gli anni in cui, prima di ogni altra sensazione, si provava forte l’entusiasmo per il ‘nuovo’: il Concilio da scoprire, lo Statuto dell’Azione Cattolica da attuare, l’eredità del ‘68 da comprendere, incanalare e ridimensionare. E per questo scrivevamo, a conclusione di un Convegno nazionale: “Il gruppo di M.S. non sorge e vive secondo schemi precostituiti. Il grado di profondità dell’esperienza che conduce, il luogo dove si ritrova, i gesti con cui si esprime, dipendono dalle situazioni contingenti e dalle persone che lo compongono.” Ma, nello stesso contesto, si ribadiva  la scelta fondamentale dell’Associazione in cui il Movimento era nato: l’impegno nell’ambiente scolastico, all’interno della più ampia pastorale della Chiesa. Per questo si lamentava, in più occasioni, la carenza di un’effettiva ed efficace forza pastorale nelle diocesi e si affermava “che si deve operare un salto qualitativo: passare da gruppi che si ritrovano attorno ad una proposta, che si conoscono e si scoprono amici, ad essere una forza organizzata, unitaria, con determinate prospettive, superando la semplice ‘area di parcheggio’ per diventare studenti che si rivolgono ad altri studenti nella scuola e che soffrono e vivono le situazioni della Chiesa locale, non estraniandosi da essa”.

Era forte la tentazione di ‘chiudersi’, ma si comprendeva quanto fosse negativo rivolgersi solo al proprio interno, perché ’si sta bene così…’: significava, in realtà, tradire la vocazione ecclesiale, ma soprattutto mancare all’impegno di attenzione e apertura all’ambiente scolastico e alle persone degli studenti, per cui il Movimento era stato fondato.

Si parlava allora di un profondo bisogno di autenticità cristiana, di valori assoluti in cui credere, di senso di fratellanza e di comunione, di ricerca di amici con cui condividere ed agire; si insisteva sull’esigenza di possedere strumenti critici per ricercare, comprendere e discernere le problematiche della scuola e della condizione giovanile e studentesca.

Erano gli anni in cui si scopriva l’esigenza di conoscere sempre più a fondo la realtà del giovane che ‘lavora’ nella scuola, così si diceva, perché si riteneva fondamentale richiamare gli studenti sulla necessità di considerare lo studio un diritto da conquistare ogni giorno, con l’impegno serio  e responsabile. Si scriveva: “E’ convinzione del Movimento che nella condizione studentesca ci sia una forte esigenza di libertà: contro di essa agiscono forze strutturali e tentativi che mascherano la restaurazione o la fuga….Nella contestazione vogliamo cogliere le istanze più profondamente innovatrici, che essa ha espresso e che sono ancora valide per gli studenti, anche se essi oggi non sono più direttamente protagonisti di un movimento di massa che cerchi di realizzarle”. Con questa valutazione si poneva l’interrogativo sulla realtà degli studenti e sui loro problemi, per individuare le linee di un intervento educativo e formativo del Movimento.

L’obiettivo appariva non facile, perché si constatava spesso un clima di profonda sfiducia nella scuola e nella possibilità di miglioramenti e di cambiamenti positivi. Per questo il Movimento sceglieva in più occasioni di passare da una fase analitica ad una fase propositiva di orientamenti comuni, che ridessero fiducia e speranza ai giovani, anche e soprattutto nella scoperta della ‘festa’ che il cristiano deve e può vivere ogni giorno.

Erano gli anni in cui si parlava “di valorizzazione delle originalità di ciascuno, di processo educativo che si sviluppa secondo un itinerario condizionato dalla maturità, dall’età, dal sesso, dai problemi delle persone”. Così affermava  il documento finale del 2° Congresso del Movimento, ribadendo  un punto inderogabile: la prima attenzione di un lavoro pastorale per gli studenti e degli studenti deve convergere sul fatto che lo studente è una persona situata, pertanto compito fondamentale è l’essere fedeli a quella persona, così come è storicizzata. Si ricordava allora che lo studente è, nel contempo, oggetto e soggetto di evangelizzazione, chiamato a testimoniare la propria vita cristiana in prima persona, in un contesto specifico: quello dello studio e della scuola.

Si sottolineava inoltre che impegnarsi in una pastorale d’ambiente significava mirare ad un’apertura e ad un coinvolgimento delle altre forze operanti nel mondo della scuola o interessate ad esso: gli insegnanti con cui tentare un dialogo, le famiglie a cui chiedere collaborazione.

Erano gli anni in cui si parlava di Riforma della scuola superiore…Ma forse, per questo aspetto in particolare, non serve più usare il verbo al passato. Ricordo, però, che allora, nonostante non si trattasse di un argomento molto nuovo, si credeva ancora con un certo entusiasmo alla possibilità di un significativo rinnovamento della scuola italiana.

Mi rendo conto che rischio di cadere nel pessimismo, e allora voglio concludere con una considerazione di cui sono fermamente convinta: anche quando tutto sembra rimanere ancorato al passato, anche quando non si intravedono vie alternative, senza dubbio i semi gettati in tanti anni di lavoro ed impegno associativo sono certezza per un cammino di rinnovata speranza.

Il presente e il presentigno!

venerdì, 29 gennaio 2010

Testimonianza di Vittorio Sammarco – Direttore di Presenza & Dialogo Studenti e Collaboratore centrale Msac anni ‘80-’90

Gli anni nel Msac nazionale, in quel di Via della Conciliazione 1 a Roma, sono stati anni decisivi per la mia vita. E lo dico senza enfasi retorica, ma con una semplice constatazione. In quegli anni (dal 1988 al 1992) ho deciso di fare un mestiere diverso da quello per il quale avevo studiato e che fino a poco tempo prima avevo visto come un sogno: non più il magistrato, ma il giornalista.

C’è di più, e più importante. In quegli anni ho conosciuto la compagna della mia vita, l’ho sposata e sono nati tre splendidi figli. Per loro, senza dubbio, il Msac è stato davvero importante.

Ma a parte l’esperienza assolutamente personale, da quei formidabili anni ho appreso tantissimo, e credo non solo io. Dai lavori di gruppo, dalla preparazione dei campi-scuola, dalle riunioni di redazione del giornale e dei testi-guida, dalle Consulte, dai seminari e convegni, in ogni iniziativa emergeva in maniera costante uno stile, un metodo, un atteggiamento, un modo di relazionarsi con la vita e con le persone, fatto sostanzialmente di due significative parole: presenza e dialogo. Esatto, proprio quelle della testata che per un po’ di tempo ho indegnamente curato in prima persona.

Presenza come capacità, attitudine e voglia di metterci la faccia, di non tirarsi indietro, di esporsi, di far vedere che si è disposti a rischiare. Uno stile proprio di tutti i msacchini, che si matura quando tanti ti dicono (e soprattutto gli adulti), “lascia perdere… chi te lo fa fare… pensa ai fatti tuoi… non perdere tempo e pensa a studiare…”. E invece no, tu vuoi esserci, vuoi rispondere all’appello (“presente!”), vuoi dimostrare che ci credi, che credi nella possibilità di contribuire a fare la società migliore proprio a partire dalla scuola. Vuoi donarti, o donare parte del tuo tempo, delle tue energie come nella bellissima lingua portoghese si traduce il “presente o presentigno”, che dir si voglia quando si parla di regalo. Una dote così, la si acquisisce negli anni di pratica e se un po’ mi è rimasta addosso, in tempi in cui in molti si defilano evitando il coinvolgimento personale, spesso poco conveniente soprattutto quando è in gioco il bene comune, lo devo allo spirito di quegli anni.

Ed è una presenza, aggiungo, sempre da affiancare al compagno dialogo, al dia-logos, a quella parola che è innanzi tutto ascolto, messa in discussione, confronto, dialettica, ricerca comune. Parte dal riconoscimento che l’altro, il mio interlocutore può avere qualcosa d’importante da dire. Il dialogo come ponte, allora, come capacità di costruire basandosi su ciò che unisce e non su ciò che divide, di mettere in relazione e costruire reti. Formidabili quegli anni che mi hanno insegnato a fare gioco di squadra, ad unire, a dialogare per scoprire che, guarda un po’, “due più due spesso può fare cinque”! Il dialogo che è anche fatica, perché no! (quante riunioni duravano in modo spropositato ore e ore e spesso si aveva la sensazione di aver fatto solo pochi passi avanti…), ma che alla fine aiuta a crescere e a maturare in gruppo. Il dialogo che ci fa sentire parte della stessa insopprimibile ed entusiasmante vicenda umana. Alzi la mano chi può affermare che oggi non ci sia bisogno di vagonate di dialogo!

Ebbene, verrebbe voglia di dire: magari fossimo stati in milioni i msacchini… Con una dose industriale di presenza e dialogo, oggi, l’Italia, sarebbe certamente migliore.

40 anni in Movimento

venerdì, 29 gennaio 2010

Testimonianza di Enrico Pizzi – Segretario nazionale Msac anni ‘80-’90

Tra i primi ricordi più significativi della mia esperienza nel Movimento Studenti di Azione Cattolica c’è un viaggio in treno. Stavamo tornando a Grosseto da Pisa, con l’allora responsabile diocesano del Msac Luca Furzi e un gruppetto di msacchini grossetani che rientravano dal primo incontro extra diocesi.

Con noi viaggiava Vania De Luca, la segretaria nazionale, che divideva la sua responsabilità con Vito Epifania. Anche Vania era di ritorno da Pisa, ma avrebbe proseguito per Roma. Avevo poco più di 15 anni e il Msac, a Grosseto, era nato da pochissimo.

Con Vania, che probabilmente aveva con sé qualcuno dei suoi libri e magari avrebbe anche avuto voglia di leggere, parlammo moltissimo, di scuola, di impegno in Ac, di pastorale d’ambiente. Insomma, credo che la si spremette a dovere – povera lei – ansiosi di non perdere nemmeno un minuto di quelle due ore circa passate in treno con la segretaria nazionale. «Chissà quando ci ricapita…» pensavamo.

Non avrei certo immaginato che qualche anno dopo sarei stato chiamato a collaborare, a Roma, proprio con Vania e il nuovo segretario nazionale Enzo Vergine, e con l’indimenticabile don Attilio, e che successivamente mi sarebbe stato chiesto di condividere, con Giovanna Mignogna, la responsabilità della segreteria nazionale, mentre nel frattempo arrivava don Mimmo a prendere il posto di don Attilio.

Direi che per la cronaca c’è tutto, o almeno c’è quanto basta a ricordare a me, prima di tutto, che non è retorico dire che l’esperienza del Msac è stata innanzitutto incontro con tante persone, relazioni che lasciano il segno.

Oggi che ho 40 anni, una moglie e una figlia che ha appena cominciato la scuola, mi viene da pensare subito a questo, quando ritorno alla mia esperienza del Msac: un’esperienza di Chiesa, con tutto quello che comporta.

Oggi che, da giornalista, lavoro dentro un ambiente laico, talvolta ostile alla Chiesa – salvo quando si occupa dei poveri – comprendo sempre meglio come l’aver vissuto la Chiesa da dentro, avendo sentito sulla pelle anche tante sue contraddizioni e avendone sperimentato i limiti, ma avendo anche visto e imparato che Gesù ama l’Umanità e la sua Chiesa entrando con il suo amore fin dentro quei limiti, non posso che ringraziare il Signore per la ricca esperienza di Chiesa che mi ha consentito di fare.

Certo, non so davvero se, da msacchino prima, da segretario diocesano poi e, successivamente, da segretario nazionale, sono stato davvero capace di dire e aiutare a dire Dio nella scuola, o di portare questa Chiesa che amo tra i banchi di scuola – tanto per citare i titoli dei due congressi che hanno segnato più profondamente la mia esperienza nel Msac – ma so che almeno ho provato, come altri prima e dopo di me, a continuare a gettare il seme di un’idea, quella della nostra responsabilità di credenti, laici, che vale quando si va a scuola come quando si cammina per strada o si sgobba tra il lavoro e la famiglia. Una responsabilità su cui il Msac mi ha insegnato ad essere esigente, prima di tutto con me stesso.

Sono convinto che nessuno, di quanti sono passati dai gruppi del Msac in questi 100 anni di storia, ne sia uscito senza aver maturato quella particolare sensibilità che fa sentire come stringente la domanda di Dio a Caino: «Dov’è Abele tuo fratello?». E mi auguro che nessuno avrà mai la leggerezza di dare la stessa risposta di Caino: «Sono forse il guardiano di mio fratello?».